Alla fine degli anni ’80 nel dipartimento di Musica e Spettacolo del DAMS di Bologna - sia nelle lezioni di Entomusicologia con Roberto Leydi, quanto in quelle di Musica Moderna e Contemporanea con Giampiero Cane - si rifletteva sulla relazione tra musica popolare e musica colta. I grandi interpreti della tradizione popolare e i più geniali compositori sperimentali del ‘900 erano ancora in vita. Figure come Giovanna Marini tracciavano un ponte con la nostra generazione, pronta a cogliere il testimone della ricerca e a confrontarsi con una musica sopravvissuta al miracolo economico italiano. Negli stessi anni cadeva il muro di Berlino e le sue macerie divennero un souvenir, come le Trabant, automobili ferme nel tempo, esotiche, dal sapore postbellico. Cadevano anche le barriere tra i generi, che il mondo accademico e l’industria discografica utilizzavano per delimitare gli ambiti espressivi e definire ciò che era cultura alta e viceversa, ciò che esprimeva la naïveté del buon selvaggio che suonava arcaicamente per gli elfi. Un muro che per convenienza, poteva essere dimenticato nei casi in cui si volesse attingere selvaggiamente dalla musica tradizionale senza conoscerne i codici.
Cos’è successo nel mondo, dopo la guerra e il dopoguerra? La normalità. Già, la norma- lità. Nello stato di normalità non ci si guarda intorno: tutto intorno, si presenta come ‘normale’, privo della eccitazione e dell’emozione degli anni di emergenza. L’uomo tende a addormentarsi nella propria normalità, si dimentica di riflettersi, perde l’abitudine di giudicarsi, non sa più chiedersi chi è (Pierpaolo Pasolini)
Per fortuna oggi il mondo è nuovamente popolato da visionari come Alessandro Santa Caterina, capace di digerire secoli di storia della musica classica, bere dalla letteratura di Bruno Maderna, strizzare l’occhio a John Cage, farlo dialogare con un madrigale, con una danza popolare, con la tradizione sedimentata, con melodie suonate con l’archetto e con eliche prese in prestito da un computer. Il tutto con uno strumento che, ancora oggi, qualcuno vorrebbe liquidare come bucolico, utilizzando questo termine in modo dispregiativo e ignorando la complessità e bellezza della musica tradizionale.
Quando ho sentito suonare Alessandro Santa Caterina mi ha colpito il suo linguaggio colto, popolare, complesso, raffinato, contemporaneo e, allo stesso tempo, la sua freschezza, immediatezza ed energia vitale. Esistono tante personalità in Alessandro Santa Caterina e questo album le racchiude in modo esemplare. Esprime il suo mondo visionario e lo fa con ricchezza di espressione, coerenza e maturità artistica, sfoderando un vocabolario e una sintesi di linguaggio profondamente originale. Immaginatelo tra le carcasse delle auto, con i suoi Salici Meccanici, un Syd Barret calabrese in preda agli sperimentalismi psichedelici che, in simbiosi con la sua chitarra battente, si tuffa un attimo dopo in riff post-punk, per poi intraprendere un viaggio musicale tra fraseggi ‘rubati’ alle improvvisazioni della musica barocca. E poi ritorna solenne, con tutta la sua compostezza, la splendida eredità della musica tradizionale. Questo è il suo disco di esordio, il primo, gli auguro, di una serie di lavori musicali che collocano al centro la musica, come materia cangiante e modellata dalla sua visione tanto arcaica quanto all’avanguardia. Affiora un cortocircuito di emozioni e idee stratificate in decenni di sedimentazione. Alessandro è antico e giovane, poderoso e fragile, delicato e capace di sprigionare da una semplice chitarra battente la massa sonora di un gruppo hardcore.
Da parte mia posso solo celebrare l’uscita di questo album come un’importante contributo per portare la chitarra battente, e con se la musica tradizionale calabrese, nel nuovo millennio, rivestendola di contemporaneità, senza perdere le tracce, lasciate nel tempo, dai grandi suonatori della tradizione orale che lo hanno preceduto.
Alessandro è una voce fuori dal coro e sono sicuro che questo album verrà accolto con stupore.